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COLAZIONE CON IL DESTINO

  • Immagine del redattore: Chiara Frizzera Zambelli
    Chiara Frizzera Zambelli
  • 12 lug 2020
  • Tempo di lettura: 4 min

GIORNO 12



Apro gli occhi e per un attimo non so dove sono. Sento il collo tirare, rigido e mi duole un po'.

Sento dei suoni imprecisi in lontananza. Sento un cerchio alla testa.

Apro gli occhi e mi accorgo di essere ancora in costume da bagno, le gambe nude sono stese sul letto. Le sento ancora calde, arrossate qua e là dalla tintarella di stamattina.

Un paio di ore di vento, sole ed un libro a farmi compagnia.

È passato più di un anno dal nostro incontro.

Quel giorno me lo ricordo ancora come se fosse ieri.

Ero rientrata a casa dei miei per l'estate e li aiutavo come consuetudine con la gestione del Bed and Breakfast. Ma quell'anno era un rientro diverso dal solito. Non lo sentivo temporaneo.

Intuivo che Milano era arrivata ad un capolinea. Dentro di me stava nascendo a poco a poco il richiamo per le radici. Un ritorno alla natura, a quel glicine che proteggeva il muro orientale di casa dei miei, dove ero solita bere un caffè americano, mentre attendevo lo svegliarsi dei nostri ospiti. A quel glicine che proteggeva il mio di muro.

Mi è sempre piaciuto dedicarmi all'ospitalità, accogliere storie di mondi diversi dal mio.

Ascoltare volti intrinsechi di vissuti.

Mi dilettava soprattutto il momento della colazione. Apparecchiavo tutto alla perfezione.

La tovaglia di lino grezzo color écru, le grandi tazze bianco lucido pronte ad accogliere caffè bollenti, le posate del corredo di mia nonna.

Piegavo con meticolosità ed attenzione i tovaglioli di carta riciclata. Posizionavo le marmellate e la cioccolata in piccole ciotole di cristallo trasparente, bordate di oro, regalo di nozze dei miei genitori.

Il tocco finale, dei fiori sul tavolo, delle rose, color rouge noir, del roseto dell'orto di mio padre, ereditato da mio nonno materno. Un roseto di circa 70 anni o forse più.

In alternativa, mi divertivo a creare dei mazzi con erbe aromatiche: ciuffi di rosmarino mescolati a foglie di basilico e menta. La tavola acquisiva sapori di campagna. Un tavolo grezzo, restaurato, di arte povera, in una corte del 1892. Così riportava un'incisione nella pietra di uno dei muri portanti.

Quando pioveva la colazione veniva servita nel cucinino della dependance.

Quella mattina gli ospiti sarebbero stati tre. La coppia di italo-brasiliani alla ricerca dei loro parenti trentini e lei, la scrittrice di origini trentine ora veneta di adozione. Era stata invitata da una compaesana per la presentazione del suo ultimo romanzo all'interno di una rassegna culturale.

L'avevo potuta conoscere già la sera prima. L'avevo accolta con curiosità.

Una letterata per me rappresentava un'istituzione.

Me la ricordo ancora attraversare il portone di ingresso. Emanava un'energia sacra. Un entusiasmo ed una solarità uniche nel suo genere.

La accompagnai in camera sua, quella rosa, con la specchiera del 1800 dove da piccola ero solita giocare a truccarmi come una regina. E la sua classe era proprio come quella di una regina di altri tempi. L'eleganza regnava infatti sovrana nelle sue parole, nei suoi gesti, tutto cinto da una piega perfetta.

La ammiravo muoversi con maestria tra quegli spazi a me familiari ma che in quel momento acquisivano nuove prospettive. Riuscimmo a scambiare alcune parole prima che si preparasse per il pranzo. Ci confrontammo su temi sociali, culturali e personali.

Mi invitò all'incontro e mi regalò una copia del libro, sottolineando come era solita regalarne solo uno ad incontro e questa volta quell'uno era mio. Rimasi colpita da quelle parole.

Non mi ero mai sentita un numero uno, piuttosto un numero primo. Le risposi che ne ero onorata e che avrei fatto di tutto per riuscire ad arrivare in tempo per la sua presentazione. Avevo già programmato un appuntamento per vedere una casa dall'altra parte della valle ed ero veramente tirata con le tempistiche.

La salutai e nel risalire le scale sentii il bisogno di contraccambiare quel dono. Andai alla ricerca del libercolo con il mio racconto vincitore al concorso letterario indetto dall'Opera di Trento.

Non lo trovai e frettolosamente accennai la cosa a mia madre, qualora si fosse ricordata di dove poteva esser finito, per donarle una copia. Lo trovò mia sorella, l'ultima, e glielo portò.

Ancora oggi quando me lo racconta mi riporta l'estasi sul volto della scrittrice, la sua purezza nel descrivermi che l'aveva ipnotizzata.

Non arrivai in tempo per l'evento ma mi presentai l'indomani mattina pronta per la colazione.

Ero così emozionata di sapere come era andata, di poterla rivedere che, mentre le preparavo la tavola, ruppi la ciotola di cristallo. Sul pavimento, mille pezzettini minuscoli avevano popolato le mattonelle, colorate qua e là, da spruzzi di yogurt e frutti di bosco.

Sembrava un quadro alla Pollock.

Imbarazzata corsi subito ai ripari e pulii il tutto per poterle offrire una colazione impeccabile.

Salutai i due italo-brasiliani e restammo sole. Io e lei.

Non fu una colazione come le altre.

Mentre la osservavo bere il te con le sue mani curate, la seguivo con la mente lungo luoghi ed immaginari condivisi.

Due donne ed un continuo crescente confronto sull'umanità, sulla politica dell'odio, sull'integrazione, sul senso civico e di comunità.

Mi riempii di complimenti per il racconto, per il mio modo di scrivere. Mi confessò che aveva pregato che ci fossi io a servirle la colazione per avere un ultimo momento assieme.

Arrossii.

Una parte di me era profondamente a disagio difronte a tutti quei apprezzamenti.

Provavo vergogna. Non sono mai stata abituata ad essere lodata e quando questo accade mi sento scomoda, come in un vestito che non sento mio. Ma c'era anche un'altra parte di me che, in cuor suo, gioiva di queste lodi e le viveva come un onore, visto che ci tenne a farmi notare che non era cosa comune per lei farle.

Avevo dimenticato di quanto scrivere fosse per me un momento espressivo necessario.

Avevo dimenticato che mi piaceva farlo.

Avevo dimenticato una parte di me, quella altamente sensibile.

E lei me l'ha fatta ritrovare.

A che punto sei del giorno? Mi rileggo in questi suoi racconti e non appena concludo l'ultima pagina, con l'Ora che mi solletica la pelle, il sole cocente che riflette su un lago deserto, sorrido e penso a quanto siamo storie e vissuti intrecciati in trame che ci appartengono.

Non siamo soli.

Siamo soli, che illuminano a volte timidamente, a volte magicamente, volti nuovi in queste acque comuni di esistenza.


Risorse

Bed and Breakfast Piazota

Saveria Chemotti - A che punto è il giorno? - Ed. Apogeo, 2019



 
 
 

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