DIPENDENZA CHE VIENI, DIPENDENZA CHE VAI
- Chiara Frizzera Zambelli
- 16 ago 2020
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 17 ago 2020
GIORNO 47
Sei sicura che non lo vuoi un gelato? Mi chiede dalla sua poltrona girevole mentre sorseggia l’espresso che gli ho appena preparato.
Stesa sul divano con Oreste mi perdo nei pensieri di questa domanda innocua.
Una parte di me probabilmente non se ne farebbe bastare due di gelati. L’altra parte di me sa che ha già sgarrato e che l’assunzione di zucchero nel mio corpo da altamente sensibile ha ripercussioni nei giorni a venire. Gonfiori, irritabilità, insonnia.
Una alta sensibilità alle sostanze eccitanti. Prima fra tutte la caffeina, grande compagna di colazioni assenti, pause sigaretta, chiacchiere con amici e nottate insonni.
Cresciuta a suon di moka il caffè è sempre stato un rituale. Di inizio, di accoglienza, di pausa, di forza. Non vi ho mai rinunciato se non quando obbligata.
È già passato più di un anno da quando presi la decisione di non fumare più. Sarebbe stato l’ottavo tentativo. Le avevo provate tutte prima di allora. Libri, corsi di auto aiuto, condivisioni di astinenza, salvadanai improvvisati in barattoli per la passata. Nemmeno le ristrettezze economiche mi avevano salvata dal ritorno alla nicotina. Una sostanza che son consapevole la ricorderò per tutta la vita. Sembra ieri. Seduta a quel tavolino tondo, ricoperto da marmo grigio, le unghie rosa confetto, ed in mano la mia Camel. Avevo ordinato come consuetudine un lungo in tazza grande con a parte dell’acqua calda. Mentre attendevo il cameriere avevo preparato l’occorrente sul tavolo. Sigaretta, accendino azzurro light come la Camel, ed il mio IPhone pronto ad immortalare il tutto. Mentre sorseggiavo il caffè bollente, ricordo il finto prato di moquette sotto i piedi. I volti di altri fumatori intenti in azioni e conversazioni accessoriate da fumi tossici. Il caldo scaldava l’asfalto. Sul piattino un piccolo cioccolatino. Su quel tavolo ero presente assieme alle mie tre più grandi dipendenze. Nell’ordine caffeina, nicotina e zucchero (sotto forma di cioccolato).
Quella per attivare il tepore, quella per alleviare il dolore e quella per colmare i vuoti di sapore. Affettivi.
Tre stampelle. Tre catene. Tre sostanze con cui ho lottato a lungo per mantenere un’indipendenza d’uso ma finivo sempre nell’abuso.
Soprattutto quella inalata.
C’è voluto un ago aspirato per convincermi a farmene mettere altri di aghi addosso, pur avendone una grande paura, per tornare a respirare a pieni polmoni. O quasi. Col tempo di purificazione. Così è stato per quella bevuta, al tempo stesso fonte di ispirazione e di demolizione. Acidità di stomaco e notti insonni per contrastare cali di attenzione, di motivazione quando forse sarebbe bastato ascoltare i bisogni delle due entità stanche ed accettarle.
E dulcis in fondo quella masticata. Compagna di serate sul divano, di post pranzi, post cene, post pianti ed un livello nel corpo infiammante da far scattar l’allarme.
Questa è la mia grande sfida. Il mio corpo ne sente un bisogno quotidiano. Da qualche parte ho letto che è una caratteristica della persona altamente sensibile avere necessità di un livello maggiore di zuccheri. Forse per un’attività celebrale costante, perennemente in modalità on.
O forse per i nostri livelli di cortisolo più alti, colpa dello stress.
Abituare il corpo e la mente all’assenza di una sostanza. Abituarli a un nuovo ritmo. Quello circadiano, fatto di sveglie all’alba, di yoga e meditazione, di colazioni da re e regine e cene da poveri al calar della luce.
Ritornare alle origini, al connettersi con i tempi naturali, stagionali.
Ritornare alla semplicità delle cose, di un frutto succoso, maturo e colto su un albero vicino casa.
Ritornare ad avere meno e pretendere meno ed accogliere ciò che ci viene dato come un dono.
Accorgersi ed ascoltarsi per trovare la strada di una indipendenza da ciò che ci fa star male ed una dipendenza da ciò che ci fa star bene nel corpo, nella mente e nell’anima.

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