LA VERGOGNA NON HA VOCE
- Chiara Frizzera Zambelli
- 26 lug 2020
- Tempo di lettura: 4 min
GIORNO 26

Un leggero cerchio alla testa sta per impadronirsi del mio pomeriggio domenicale.
Stanca. Sul divano ascolto la mia voce uscire dalle casse assieme alle note di violini. Intravedo schermate d’onde suono accompagnate da il suo dondolio sulla sedia d’ufficio nera con quattro ruote girevoli.
Per il momento non gira nient’altro.
L' abbiocco post pranzo vuole avere la meglio sul qui ed ora ma combatto con i denti per tenermelo stretto. Digrigno. Dove sarà finito il bite? La questione sottolinea la mia negligenza d’ordine.
Le palpebre vacillano e forse dovrei solo lasciarmi andare sui suoni di questa nuova canzone, a ritmo di luoghi inconsci e gocce dI malinconia.
Vedo linee colorate sul 21 pollici e ascolto quella voce che avevo nascosto in un cassetto. Vergogna di identità adolescenziali.
Beata incoscienza. Salire su un palco per poco pubblico che ci sia è un momento di rappresaglia alla timidezza. O così è stato per la mia. Ben due concerti in una sola estate.
Primo maggio su e coraggio. La prima esibizione, davanti ad un pubblico misto, in montagna al fresco, al riparo da sguardi troppo familiari. Mi ricordo ancora come ero vestita. Una t-shirt con stampe a fumetti e dei pantaloni di velluto nero con cintura a vista. Dr Martens e i capelli raccolti in una crocchia. Smalto e rossetto coordinati. Se ci penso ora mi viene da sorridere. Ero proprio un miscuglio di identità diverse che non avevano trovato ancora un minimo comune denominatore. Eterogenea. Ma forse era quello il bello.
Il primo gruppo ad esibirsi era heavy metal. L’emozione in salita quando venne chiesto loro il bis.
Siamo i prossimi.
Alle nostre spalle ci sovrastavano conifere giganti mentre davanti a noi volti erranti vagavano con i loro sguardi tra le nostre cover rock per circa mezz’ora.
La stanchezza mi cattura e mi addormento sognando quel pomeriggio di primavera che mi vedeva protagonista di una ricerca di me stessa. L’anno della maturità, la scelta dell’università ma soprattutto la scoperta delle mie diverse potenzialità.
Mi è sempre piaciuto cantare. Stare su quel palco mi aveva concesso di sbandare dai miei standard di gregaria. Prima protagonista di una band di cui non avevo nemmeno scelto il nome. Cantavo canzoni cantate e suonate da uomini, la band era composta da soli machi, io ero l’eccezione. Le mie idee venivano giudicate bizzarre, come quell’abbinamento improponibile. Ero una mosca bianca che non aveva la forza di gridare. Così mi cimentavo con la preparazione di torte da portare in sala prove per contribuire. Mi piaceva preparare dei dolci per fine session. Eravamo molto diversi tra noi, caratterialmente ed umanamente. Chi più timido, chi più sicuro di sé e protagonista, chi più riflessivo, chi più ribelle. E poi c’ero io. Che studiavo canto per poter essere all’altezza di quelle prime performance. Cantare mi faceva liberare paure. Mi faceva sentire viva. Mi ha insegnato a respirare. Non più di torace, ma con il diaframma per poter gestire al meglio l'ossigeno, l'aria, l'energia.
Di energia ne ho regalata molta in quel sabato pomeriggio dove nonostante le stonature ed i fuori tempo abbiamo portato a termine i nostri trenta minuti di popolarità.
Una volta scesa dal palco ne ho avuto riscontro da chi era venuto a vederci perché ci conosceva ma anche da chi era lì in veste di musicista.
Su quel prato verde intenso ad un certo punto mi avevano avvicinato due tipi del gruppo heavy metal, il cantante ed il chitarrista, per congratularsi per la mia performance canora ed incuriositi dal mio timbro di voce, mi avevano chiesto una collaborazione "Ci è piaciuta molto la grinta che hai tirato fuori".
Non credevo alle mie orecchie! Non capivo se fosse uno scherzo. Una ragazza appena diciottenne, descritta sempre come fragile, con un corpo esile ed una timidezza cronica come marchi di fabbrica era stata valutata interessante per un ruolo di cantante heavy metal.
Pazzia pura!
Ci scambiammo i numeri di cellulare ed entusiasta andai a confrontarmi con i miei di musicisti che mi spezzarono le ali in men che non si dica. "Tutta una scusa per chiederti di uscire". Poi fu il turno di mia madre che al telefono mi ricordò che avevo l'esame di stato e non avrei dovuto perdermi in sciocchezze ma rimanere fedele alla linea, studio-studio-studio.
Ancora oggi mi chiedo se i miei compagni di band avessero ragione oppure no.
La chiamata la ricevetti pochi giorni dopo, la sera tardi, e non riuscii a rispondere in tempo.
Provai a scrivere un messaggio ma non ricevetti alcuna risposta. Rimasi delusa. Forse avevano davvero ragione loro. Così mia madre non dovette preoccuparsi delle interferenze fuori campo e mi diplomai senza nessun intoppo.
Da allora provo vergogna quando devo cantare. Non mi sento mai pronta.
Sempre fuori posto. Sempre fuori tempo. Sempre fuori corda.
Quando ho registrato la voce giorni fa mi son sentita di nuovo su quel palco, stavolta con a fianco qualcuno che non giudicava i miei scivoloni, ma mi esortava a riprovare e riprovare, senza alcun giudizio, senza alcun rimprovero, senza alcuna limitazione.
Solo io davanti ad un microfono, lui ad un 21 pollici ed Oreste sul divano come pubblico.
Non importa se quella voce registrata entrerà o meno in qualche nota.
Quello che importa è che per alcune ore ho lasciato in disparte quella somma di episodi che mi hanno fatto sentire in sottrazione, per sentirmi invece finalmente addenda di me stessa.
Le palpebre si riaprono e quei violini hanno lasciato posto a sonorità elettroniche, mentre lui è sempre fedele alla sua di linea: musica-musica-musica, per lo meno per oggi.
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